Le vecchie cave di pietra molera da tanto tempo hanno cessato la loro attività. Le ultime sono state chiuse tra gli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso. In Valle Santa Croce se ne contavano ben 300. Oggi i fronte cava sono stati ricoperti dalla vegetazione; taluni sono franati. Uno sguardo attento consente ancora di individuare l’imboccatura di queste vecchie cave.
Molera era il nome che in Brianza si dava all’arenaria, una roccia sedimentaria costituita principalmente da granuli di sabbia . Una pietra quindi di facile lavorazione che ha trovato impiego fin dai tempi più antichi come materiale da costruzione. Con questa pietra per secoli sono state costruite sia le povere case dei contadini che le ricche abitazioni patrizie. Nelle prime si usavano piccole pezzature, materiale di scarto mentre per le seconde si usavano blocchi perfettamente squadrati anche di grandi dimensioni. La pietra molera veniva impiegata anche negli edifici e manufatti religiosi. La lavorabilità consentiva la realizzazione di statue , bassorilievi, colonne, davanzali, stipiti ecc.
La chiesa di Lomaniga è stata costruita con la pietra molera e a proposito di statue, ve ne è una di molera raffigurante San Vittore collocata in una nicchia del campanile della chiesa di Missaglia.
San Vittore veniva festeggiato l’8 maggio. Era il protettore degli esuli e dei prigionieri. Era un Santo molto sentito non solo in Brianza ma in tutto il Milanese. Era uno dei più venerati martiri milanesi dei primi secoli. Secondo alcuni venne decapitato a Lodi secondo altri il martirio avvenne nei pressi di Milano in un bosco di olmi. Al santo sono dedicate numerose chiese e il famoso carcere Milanese.
“Per San Vituu la biancheta al suu” (biancheta= camicia)
La lavorabilità però si accompagnava alla scarsa resistenza alle intemperie sicché molti manufatti recano i segni dell’usura del tempo.
A tale proposito, anche se fuori tema , si ritiene citare la settecentesca “Via Crucis” che circonda, come una corona, il Santuario di Montevecchia. I bassorilievi, di gran pregio, che rappresentano le stazioni, sono in pietra molera. Sino a qualche anno addietro le formelle presentavano un preoccupante “sfarinamento” dovuto agli agenti atmosferici. Dopo il recente restauro sono tornate a mostrare la raffinata fattura.
Il nome molera è dovuto al fatto che questa pietra veniva usata per molare le lame delle falci e dei coltelli.
Molti uomini del circondario hanno lavorato nelle cave di molera ed in dialetto venivano chiamati “Piccaprea”, (scalpellini) anche se, a quel tempo i più lavoravano la terra. Nella stagione invernale, quando il lavoro nei campi era fermo, c’era chi dava una mano in cava per guadagnare la giornata.
La cava di molera si presenta con strati di roccia di spessore che variano dai dieci centimetri ad un metro e più. I “Piccaprèa” con gli scalpelli creavano delle fessure dove infilare dei cunei che permettevano lo stacco del blocco di pietra; data la stratificazione si otteneva una sorta di mattone naturale. Per il sollevamento si usavano degli argani in legno. Nel periodo invernale, non tutti i mali venivano per nuocere poiché in occasione delle nevicate il trasporto era facilitato dall’uso di slitte.
Nel descrivere la Valle Santa Croce non possiamo che differenziare le opere artistiche e storiche di carattere religioso dalle opere di origine contadina che rimandano ad un passato neanche troppo lontano basato sull’agricoltura e sul mondo rurale.
LA CHIESA
Fra le opere religiose spicca di importanza la cappella di Santa Croce documentata dal XIII secolo (1289) nel “Liber Sanctorum” come “Ecclesia Sancte Crucis”. Nel l398 figura nell’Archivio Storico Lombardo con il nome di “ Cappella S. Crucis”. La toponomastica lega il nome della Valle alla citata chiesetta fatta costruire , sulle rovine di una precedente ara pagana, da un non meglio precisato nobile crociato a ricordo delle gesta compiute in Terrasanta.
Tipico esempio di architettura romanica minore presenta ancora gran parte della struttura originaria, l’aula rettangolare conclusa da un abside semicircolare alleggerita da una cornice di archetti cechi pensili e finestre sguanciate in pietra locale (molera ) lavorata.
Le pareti del corpo longitudinale sono impreziosite da tre monofore, mentre le volte di sostegno del tetto sono state aggiunte a metà del 1800.
La chiesetta ha una facciata con architettura molto semplice con due lesene angolari in pietra locale squadrata. Sopra la porta di ingresso, come in altre chiese del territorio vi è una finestra semicircolare; il frontone è triangolare.
La costruzione è povera ed è realizzata in pietra e laterizi; la partitura architettonica è sottolineata dagli angoli in pietra lavorata che formano sottili pilastri con funzioni ornamentali.
Un primo restauro dell’edificio risale al quindicesimo secolo, probabile propulsore il clima della riforma cattolica ed è soprattutto la popolazione che dimostra la ritrovata vitalità religiosa in un opera di impegno collettivo.
La chiesa dal 1700 è proprietà della famiglia Sormani di Missaglia come testimoniano due lapidi in marmo nero murate all’interno che attestano il passaggio di proprietà a Cesare Sormani.
Oggi la chiesa vive una sorta di abbandono. Una recente testimonianza verbale fornita da una persona anziana ha permesso di far “rivivere” con la memoria la chiesetta, ed il borgo. Sebbene il nucleo di Valle Santa Croce nel secolo appena trascorso contasse oltre 50 abitanti, nella chiesa non veniva celebrata la Messa domenicale poiché si preferiva che i fedeli frequentassero la Parrocchia.
La Messa veniva celebrata il tre di maggio, ricorrenza della Santa Croce. Alla funzione partecipavano tutti gli abitanti della valle. La civiltà contadina aveva legato a questo giorno numerosi proverbi:
“S’el pieov ul dì de Santa Cruss el marciss tutt i nuss”
“Se a San Crusett, ul frecc vegn indree, saludi cavaleee”
“ Tra San Giurget e la Cruset ghe semper un invernet”
“L’invenzion de Santa Cròs la lassa l’invernir apòs” (apos = indietro)
La “Santa Croce” accendendo la fantasia aveva ispirato ai nostri vecchi i seguenti detti:
“La Crus l’è ul pan de tutt i dì”
“Fass benedì cunt ul manigh de la Crus”
“Negà ul Signur su la Crus”
“Se poe minga cantà e purtà la Crus”
Ma la vera festa della Valle era il 14 settembre: L’esaltazione della Santa Croce.
Quel giorno veniva detta una Messa alla quale tradizionalmente partecipavano i “Conti” con i loro amici. I nobili prendevano posto in chiesa su di una balconata (che non esiste più) alla quale si accedeva da due scale laterali. Poi trascorrevano la giornata in Valle; in un edificio vi era la “Sala del Conte” dotata di fornelli a legna e con ornamenti a guisa di casa di caccia. Quel giorno veniva anche la banda.
La cura della chiesa (si desume che il periodo fosse quello intercorrente tra le due guerre) era affidata ad una certa signora Santina; il compenso era di 10 lire l’anno. Aveva le chiavi e le ragazze del borgo la aiutavano nelle pulizie. La signora Santina apriva la chiesa la domenica. Sul sagrato vi erano due tigli e d’estate, le donne andavano lì a riposarsi dai duri lavori della settimana. Verso sera entravano in chiesa per recitare il Rosario.
Nell’interno la chiesa si presentava ben diversamente da oggi. Oltre al citato soppalco, da quanto raccontato, nell’abside vi era un coro ligneo, con inginocchiatoio . Vi era un armadio per i paramenti sacri. Vi erano quattro candelabri, due per tutti i giorni e due belli comprati dalla comunità da usarsi nelle festività solenni. Vi erano le panche e significativa era la presenza di due quadri, uno raffigurante Re Salomone con tanto di spada nell’atto di tagliare in due il bambino (immagine che impressionava la gente) e l’altro raffigurante Sant’Elena con in mano una piccola croce.
Elena era la madre dell’imperatore Costantino; Cristiana di profonda fede ebbe parte affinché il figlio nel 313, con l’editto di Milano, riconoscesse ai Cristiani la libertà di culto. Elena nel 326, a 78 anni, intraprese un pellegrinaggio penitenziale nei luoghi Santi di Palestina. Qui si adoperò per la costruzione delle basiliche della Natività a Betlemme e dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi, che Costantino poi ornò splendidamente. La tradizione narra che Elena, salita sul Golgota per purificare quel sacro luogo dagli edifici pagani fatti costruire dai romani, scoprì la vera croce di Cristo, perché il cadavere di un uomo messo a giacere su di essa ritornò miracolosamente in vita. Insieme alla Croce vennero ritrovati anche i tre chiodi, i quali furono donati al figlio Costantino, che ne forgiò uno nel morso del proprio cavallo. Un altro chiodo lo ritroviamo nella Corona Ferrea , conservata nel duomo di Monza.
Un detto brianzolo legato a San Costantino che si festeggiava l’11 di marzo, è
“A San Costantin mola (affila)
ul scighezzin”
Questi quadri sono andati persi a causa di infiltrazioni d’acqua che hanno fatto marcire la tela.
Vi è il ricordo di una statua della Madonna con una veste bianca ed il ricordo di una bambina birichina che le sollevava la veste….
Vi è anche il ricordo di una reliquia, un pezzo della croce di Cristo, donata alla chiesa di Valle Santa Croce dal Cardinale Ildefonso Schuster in occasione di una Sua visita pastorale.
Sempre secondo testimonianze raccolte sembra che l’altare sia stato rimosso per permettere la ricerca di un inesistente Tesoro seppellito sotto di esso.
Forse per preservarlo dai furti, quanto di pregio rimaneva della dotazione delle chiesetta è stato trasferito altrove, questo circa trent’anni or sono.
I VOPSI
Nel 1959 durante i lavori di restauro della chiesa, furono rinvenute sugli angoli del muro di spinta che sorregge il terrapieno del piccolo sagrato antistante l’oratorio, due grosse colonne in arenaria: su una di queste è incisa una breve iscrizione in alfabeto così detto nord etrusco databile al VI-V secolo A.C.
Questa iscrizione dimostrerebbe quindi la presenza di popolazioni di stirpe etrusco ligure; la stessa iscrizione confrontata con simili iscrizioni venute alla luce sul lago d’Orta ed in Val d’Ossola è interpretabile con il termine Vopsi , appellativo attribuito a genti di stirpe ligure.
L’origine del nome della città di Domodossola potrebbe risalire a Domus Vopsi
Il significato dell’iscrizione è comunque incerto e molto discusso, una interpretazione vi legge “Vopsil” un’altra “Mopsil” da Mopso – Mopsilia – Massalia , radice etrusca del nome Missaglia assonante con Marsiglia.
L’iscrizione fa pensare che fin da quel tempo antichissimo Missaglia doveva essere un centro di rilievo tanto da dar luogo ad iscrizioni su pietra considerato che, a quel tempo, il privilegio della lingua scritta doveva essere cosa rara.
Nella zona vi sono altri toponimi riecheggianti gli antichi abitatori: poco a sud della Valla Santa Croce, sotto Missaglia, si trova una località chiamata “Ossola” (nei pressi della frazione Maresso) dove presumibilmente passavano i confini meridionali del territorio abitato dal ceppo dei Vopsi;
La località “Lissolo” situata sulla sommità dei rilievi che delimitano a nord la Valle Santa Croce, rappresentava probabilmente il confine settentrionale con il nome “Limes Vopsorum” , confine dei Vopsi.
La presenza di queste popolazioni dalla tecnologia abbastanza evoluta ci garantisce che attorno al V secolo avanti Cristo si andava diffondendo l’uso dei metalli più duri, come per esempio il ferro.
Già da allora si lavorava la pietra arenaria; nella cave più grandi si sono trovate tracce di antiche abitazioni. (Al tempo si lavorava anche la lana come documenta il ritrovamento di pesi di telai nell’alveo del torrente Curone nei pressi di Busarengo in località Ronco).
Ulteriore prova della presenza Etrusco Ligure sul nostro territorio è la denominazione del torrente Curone identica a quella del corso d’acqua che dal monte Ebro confluisce nel Po, derivante dal nome del ceppo dei Curoni (o Curuni), della stessa stirpe dei Vopsi.
NUCLEO DI VALLE SANTA CROCE
Attorno alla cappella sorge, ancora ben conservato, l’abitato di Valle Santa Croce con interessanti elementi di architettura rurale. Il nucleo ha mantenuto la distribuzione originaria degli edifici che sono stati per la maggior parte ristrutturati.
Pregevole è il corpo residenziale posto all’estremità nord; l’edificio ed il rustico annesso conservano le caratteristiche originarie. Il fronte è caratterizzato dalla presenza di una serie di archi lombardi che al piano terra danno luce ad un portico e al primo piano ad un loggiato dove rimane aperta una sola arcata. Si sovrappone poi un solaio. Il fronte posteriore si presenta invece compatto.
La muratura è composta principalmente da pietra molera, con cocci di piccole dimensioni mentre gli archi e i pilastri sono in laterizio ed è in laterizio anche la piccola fascia decorativa posta al termine di ogni piedritto. Nel portico c’e quel poco che resta di un’ icona raffigurante la Madonna di Lourdes. Si è appreso che la Madonna che oggi vediamo è stata dipinta -negli anni trenta (?)- sopra una precedente immagine già allora rovinata dal tempo. Di fronte a questo edificio si trova un corpo rustico con la classica distribuzione che prevede piccole stalle al piano terra ed il fienile al primo piano. Qui la corrente elettrica è arrivata nel 1952.
Il borgo si approvvigionava d’acqua ad una fonte che sgorgava dietro ad esso. In prossimità della fonte vi erano due panche; è facile immaginare un posto idilliaco. Anche qui sono intervenuti cambiamenti, al posto della fonte oggi vi è una cisterna di cemento dove si raccoglie l’acqua sorgiva.
CASCINA NOVELLE’
La cascina ancora oggi è abitata da più famiglie. L’abitazione a pianta quadrata consta di due piani più un sottotetto colombaio-fienile.
I piani sono collegati da una scala posta in un piccolo porticato contenuto entro il perimetro della casa e che al primo piano diventa ballatoio aperto con balaustre in legno
Sulla facciata vi è una edicola votiva scavata nel muro che contiene una piccola statua votiva di Sant’Antonio di Padova.
(Sant’Antonio da Padova si festeggiava il 13 di giugno. Le “canzon” che riguardavano Sant’Antonio di Padova accendevano la fantasia dei contadini; infatti sapevano che al Santo era apparso Gesu’ sotto le sembianze di un bambino seduto su di un grosso libro, simbolo della sua ferrea dottrina che gli aveva fatto meritare il soprannome di “martello degli eretici”.
La liturgia nella preghiera dedicata a Sant’Antonio prevedeva l’intercessione per la protezione dalle avversità, cosa della quale il contadino ne aveva assai bisogno. Il Santo era ricordato anche come guaritore.
Per Sant’Antonio da Padova i nostri vecchi avevano i seguenti proverbi:
“A Sant’Antoni Paduan el cascia fò la lengua i cann”
“Sant’Antoni de la barba bianca, famm truvaà quel che me manca”
In un certo senso era il protettore anche di quelle ragazze che, lasciate, avevano perso il fidanzato. I genitori o i vecchi quando avevano sentore che una adolescente nascondesse tra le sue cose romanzetti poco decenti per l’epoca, riferendosi alla dottrina del Santo dicevano:
“Varda che te mandi in stanza Sant’Antoni” con il significato di piccola inquisizione familiare contro la stampa “cattiva”.
L’iconografia presso alcune cascine lo vuole con il saio francescano, di aspetto giovanile con un giglio fiorito ed il Bambin Gesù in braccio. La tradizione diceva che il Santo poteva fare fino a tredici miracoli al giorno).
Sul retro della cascina si trova un lavatoio scoperto in muratura alimentato da una propria sorgente.
Nei pressi della cascina vi sono degli edifici accessori originariamente stalle al piano terreno sovrastate dai fienili.
CASCINA BELESINA (Inferiore)
La cascina Belesina inferiore, la sola superstite delle due originarie (inferiore e superiore), è ancora abitata. Si trova in una posizione da cui si domina quasi tutta la parte a sud della Valle Santa Croce.
E’ costituita da un unico corpo di dimensioni contenute. Disposta su due piani fuori terra più un colombaio è caratterizzata dalla presenza di un portico a due arcate al piano terra, con sovrastante loggia. La struttura è completamente in pietra molera e gli spigoli dell’edificio sono rinforzati da grossi conci squadrati. La pavimentazione del portico era originariamente in ciottoli. Il portico protegge un’icona dedicata alla Madonna del Bosco.
La festa della Madonna del Bosco cade giorno l 9 di maggio. Per i nostri vecchi a quei tempi era pressoché d’obbligo il pellegrinaggio al Santuario di Imbersago. Vi ci si recava a piedi ed era l’occasione per una gita in un luogo ameno e ancor’oggi particolarmente bello. Il pellegrinaggio durava tutto il giorno e i numerosissimi fedeli si accomodavano su tavoli di pietra nei pressi della Basilica per riposarsi e per consumare la colazione portata rigorosamente da casa. La devozione alla Madonna del Bosco era molto sentita sia di qua che di là dell’Adda. Giungevano fedeli tutti i giorni dell’anno. Fu assidua la frequentazione del Santuario da parte del giovane Giovanni Roncalli, anche da Cardinale poi divenuto Papa Giovanni XXIII. Purtroppo anche questa tradizione si sta affievolendo.
CASCINA FORNACE
La cascina Fornace, posta sulla strada che da Missaglia conduce al fondo della valle è rimasta disabitata ed in uno stato di abbandono per molti anni. Ha dimensioni piuttosto contenute (circa 26 metri di lunghezza per una profondità di circa 8 metri) . Sulla testata nord si trovava la parte rustica, con stalla al piano terra e fienile al primo piano schermato da un grigliato in laterizio.
Oggi è stata interamente ristrutturata.
L’osservazione consente di individuare ancora oggi il nucleo più antico, cui furono aggiunte altre parti in epoche successive. Siamo in presenza di una cascina “povera” infatti i muri sono realizzati con pietra molera ma con conci piccoli e irregolari (ciapel).
L’ingresso è segnato da un arco lombardo. Prima della ristrutturazione questo arco era intonacato nella parte esterna mentre all’interno era ben evidente la tessitura tutta in laterizio ed i piedritti terminavano con un accenno di capitello anche questo in laterizio.
In questa cascina funzionava un vero agriturismo! Vi era un’osteria, portata avanti dalla signora Carmelina dove si poteva anche mangiare. Sulla stufa sobbolliva sempre una pentola con il lesso. Il piatto principe era la gallina lessa che veniva servita con i cetrioli (i nostri cetrioli bianchi) messi sott’aceto. Il marito della signora Carmelina era particolarmente abile nell’insaccare il maiale e non a caso lavorava in un noto salumificio della zona.
STELE
In prossimità della cascina Fornace, dall’altro lato della strada, si trova una croce votiva scolpita nella pietra molera, recante i motivi della morte: il teschio e le ossa femorali incrociate ed i simboli della passione: il martello, la tenaglia, la scala. Il manufatto risale quasi sicuramente ai tempi della peste e con ogni probabilità indica la presenza di luoghi di sepoltura.
A proposito di peste, molti conoscono la peste del 1630 di Manzoniana memoria, ai tempi del Cardinale Federico Borromeo. Prima , nel 1576,. vi era stata la cosiddetta peste di San Carlo (Borromeo) che devastò Milano e il circondario. Ancor prima, nel 1524, il Milanese aveva conosciuto un’altra epidemia di peste.
CASCINA FORNACE (Fumaiolo)
L’intero nucleo delle strutture legate all’attività produttiva della fornace è stato demolito e ricostruito in epoca recente. L’unica testimonianza della vecchia fornace rimane il fumaiolo in mattoni, peraltro anch’esso completamente ristrutturato. L’intervento di restauro di cui è stato oggetto la cascina ha cancellato qualsiasi carattere rurale della stessa.
Si ricorda che nel 1925 degli uomini venuti dal Friuli avevano affittato il complesso della cava di mattoni. Era gente esperta di questo lavoro e laboriosa. Il buon andamento dell’attività aveva richiamato altra mano d’opera dal Friuli, uomini che poi avevano sposato ragazze del circondario. Questi operai venivano chiamati in dialetto “Palteé”. Alcuni discendenti abitano tuttora il nucleo di Valle Santa Croce. Dal racconto di una persona anziana si è appreso che un tempo, la ciminiera che oggi vediamo, era molto più alta. Tanto alta che quando, a seguito di un forte evento atmosferico è crollata, spezzandosi in due, le macerie sono arrivate ad invadere il letto del torrente.
Come avveniva per le cave di molera , nei mesi invernali, quando c’era poco da fare nei campi, alcuni uomini guadagnavano la giornata lavorando alla cava di mattoni.
PENSIERO FINALE
Quest’anno, dopo alcuni anni siamo tornati a proporre una visita guidata in “Valle Santa Croce”.
Abbiamo ripreso la vecchia dispensa e l’abbiamo ampliata con altre notizie e ricordi che nel frattempo abbiamo avuto l’occasione di raccogliere nel corso delle nostre capatine in Valle.
Volendo scrivere un pensiero finale ci siamo ritrovati a dire le stesse cose che ci sentiamo di dire ogni volta che si parla del passato o si accompagnano le persone nel Parco invitandole ad avere un “occhio attento” a manufatti del passato disseminati qua e là, quali muretti a secco, lavatoi, croci votive, cappellette nonché “naves” e “ copp” cioè sorgenti e pietre piane lungo i torrenti dove un tempo le donne andavano a “lavà e resentà”. Quanto segue è stato ripreso da un precedente nostro scritto poiché riteniamo riportare le nostre esperienze.
...”Ricordando il passato a volte si usa la parola “I nostri vecchi”, “I vecchi contadini” e mi sono accorto che oggi sono parole con un significato quasi astratto. Chi sono i nostri vecchi? Quelli che oggi hanno settanta, ottant’ anni? Forse no! Queste persone sono nate intorno agli anni ’30 del secolo scorso e quando avevano venti trent’anni, con il boom degli anni ’60, hanno iniziato a vivere come noi, passando dai campi alle fabbriche. I “nostri vecchi” sono quindi quelli che non possiamo vedere, i padri degli attuali vecchi.
Queste persone anziane sono tra le ultime ad avere un ricordo diretto della vera civiltà contadina, del rapporto con la terra, perché nei primi anni della loro vita sono stati contadini, abitanti delle cascine.
Noi siamo uomini del terzo millennio. Da un lato abbiamo molte più cose: si vive meglio! Ma ognuno di noi ricorda con nostalgia il passato: la sua eco. Forse era un modo di vivere più morale, più secondo i ritmi della natura. “Natura” parola abusata. “Natura” bistrattata per le nostre immediate convenienze.
Oggi, alcuni pensionati, sono ritornati a coltivare un lembo di terra e vedendo l’abbandono dei campi e dei boschi sconsolati dicono che “hemm perdù la strada”. Troppi gli sprechi, tanti gli altri valori. All’osteria di Sant’Ambrogio in Monte uno di questi pensionati mi ha detto che è già morto due volte. La prima quando ha visto morire (abbandonare) la terra che aveva lavorato da giovane e sulla quale avevano lavorato suo padre e suo nonno. La seconda, quando tornato dopo tanti anni in quel di Sesto San Giovanni, ha visto la sua fabbrica, dove aveva lavorato per quarant’anni, abbandonata. Cambia il modo di vivere e “muore” abbandonata anche la Fede: nella nostra società si prega molto meno.
Sempre all’osteria di Monte ho sentito dire da un vecchio quasi fosse un monito: “Semm adrèe a carezzàa ul pel del gatt al cuntrari…e vardii che quel prima o poi al sgrafigna”! Lascio a voi la conclusione”.
Letto ma soprattutto visto, sentito e ricordato qua e là.
In questa dispensa, ad uso della visita nel Parco, organizzata dalla Guardie Ecologiche Volontarie, ho riportato inevitabilmente talune letture. Queste poche righe non hanno altro scopo se non quello di fare amare il Parco.
P.S. Non siamo stati in grado di scrivere correttamente in dialetto.
(a cura delle G.E.V. Michele Villa & Giovanna Dossi).
APPENDICE:
Allegata a: “ La Valle Santa Croce” – Visita Guidata del 14/12/2008 a cura delle Guardie Ecologiche Volontarie.
IL NOME BRIANZA
Secondo gli antichi romani l’origine del nome Brianza era da riportare a Brianteo uno dei generali al seguito delle truppe di Belloveso che nel IV secolo a.C. avrebbe portato gli Insubri in Italia Settentrionale fondando l’antica Mediolanum (l'odierna Milano). Brianteo pare che poi si sia stanziato nella zona collinare a nord di Milano, che da lui prese il nome. Altri fanno risalire il toponimo ai Briganti, popolazione celtica che abitava la Britannia. Un’altra ipotesi, molto accreditata, fa derivare il nome Brianza semplicemente dal termine gallico (celtico) “Brig” che significa colle, altura. In passato le terre di Brianza erano selvagge, mal frequentate…da qui i termini ancora in uso di briccone, brigante.
A ruota libera possiamo ritrovare la parola “Brig” come suffisso, desinenza o parte dei termini Britannia, Insubri, Briançon (l’antica Brigantium), Bregaglia, Brughiera, Bergamo (Berg-Comum) e nel dialettale Bergamin che sta a significare uomo dei monti.
Secondo alcuni il nome Brianza discenderebbe dalla città di Barra o Barranzia “ritrovata “ sul Monte Barro. Lo storico milanese Bernardino Corio riferisce circa l’importanza assunta dal Monte Barro durante l’ultimo periodo della dominazione Longobarda. Re Desiderio, sconfitto dal Papa “ si recuperò neli monti de Brianza in un loco dicto Monbarro. Quivi talmente si fortificò e stette tanto, che di solitario monte quasi divenne opulente citade” La distruzione di questa “citade” fu ad opera dei Franchi.
La prima volta che compare ufficialmente il nome Brianza è in un documento datato 16 Agosto 1107 con il quale la vedova, citata come contessa, di un signore milanese, tal Azzone Grassi, dona dei possedimenti per la fondazione del monastero clunicense nell’attuale zona di Figina di Villa Vergano sul Monte di Brianza.
Il documento in tardo latino recita:
“….omnes res territorie iuris mei quas habere visa in loco et fundo seu monte qui dicitur Brianza, ad locum qui dicitur Infigina….”
(Tutte le cose in mio possesso nel luogo e fondo sul monte che viene chiamato Brianza sino al luogo detto Infigina).
La Brianza è un’area per la quale non esiste un vero e proprio confine; in origine il nome Brianza indicava solo l’omonimo monte, sul quale tutt’oggi esiste una frazione chiamata Brianzola a testimonianza di un antico insediamento. Potremmo oggi sommariamente dire che la Brianza si estende da Lecco a Monza e da Gessate a Cantu’: un’affermazione che verrebbe da molti contestata.
Mi e stato detto che un tempo Brianza era anche Cinisello Balsamo, Cusano Milanino, Sesto Sesto San Giovanni eccetera…..: zone che oggi mai identificheremmo con la verde Brianza.
Il perché dell’estensione dei confini ha una simpatica spiegazione. Noto che dall’inizio del XXVI secolo il patriziato milanese iniziò a costruire innumerevoli magnifiche ville immediatamente a nord di Monza ove trascorrere i mesi estivi; l’andare in Brianza comportava un rituale che iniziava con i preparativi ed infine lo spostamento con bagagli e servitù al seguito. Andare in Brianza era quindi sinonimo di lusso. Ceti meno abbienti che non volevano apparire da meno si spostavano, anche per brevi periodi, in località allora di campagna, immediatamente fuori Milano dicendo di essere stati in Brianza….ecco “spiegato” l’allargamento dei confini.